Dal Desk della Presidente
Viviamo in un mondo di cambiamenti frenetici, eppure certi pensieri sembrano non mutare mai. Pensavo a questo leggendo l’articolo “FRANCIA – L’innominabile malattia del femminismo”, pubblicato da Pagine Ebraiche il 19 gennaio. Non una data qualsiasi: è stato il giorno in cui sono tornate finalmente a casa tre donne strappate violentemente alla loro normalità. Quell’articolo mi ha ricordato che nulla è cambiato nel modo in cui la coscienza collettiva giudica il Popolo ebraico. Un giudizio che, di fronte alla verità, rappresentata dal ritorno di quelle tre ragazze, risulta particolarmente odioso, anzi, insopportabile per chi è parte di un’Associazione come la nostra.
Anche in Italia abbiamo provato sulla nostra pelle quell’ “assordante silenzio” che è prevalso nelle Associazioni femministe circa gli episodi di violenza subiti in Israele dalle donne nell’aggressione del 7 ottobre. Ma non c’è mai limite neanche al peggio. Oltre alla stigmatizzazione delle donne ebree, frutto della polarizzazione ideologica, nell’ultimo anno ci siamo sentite vittime anche di un retaggio sottile più trasversale, spesso manifestato persino da una parte insospettabile della società civile che pensavamo amica e solidale. Sono dei distinguo più velati, ma non per questo meno infamanti, che cominciano esprimendo una certa solidarietà, ma non proseguono con il coraggio necessario a condannare fino in fondo il terrorismo e il male che genera e che può ancora generare. Discorsi che cominciano con “Certo quello che è successo è terribile, ma…”.
Ecco, quel “ma” assomiglia un po’ troppo alle attenuanti dietro cui si mascherano gli uomini che fanno violenza a tutte le donne del mondo, quel famigerato “se l’è cercata”, spesso camuffato in ricostruzioni arbitrarie o nel confondere le vittime con i colpevoli. Quel ‘ma’ arriva persino a mettere in dubbio il lavoro di un oltre secolo condotto dalla nostra Associazione per dare alle donne sicurezza e un posto nella società che abbiamo contribuito a costruire, nonché alla collaborazione quotidiana con Associazioni con le quali abbiamo creato un legame che pensavamo sano, forte e sincero. Un lavoro che prende forza dalle radici stesse dei valori ebraici.
Chi si permette di fare quei distinguo non sembra rendersi conto di quanto i pregiudizi siano figli della stessa madre e si rafforzino l’un l’altro. Pensate che c’è stato qualcuno che, vedendo le immagini delle ragazze rapite che abbracciavano le loro famiglie dopo 15 mesi di terrore e credendo di essere spiritoso, ha detto che, in fondo, non è male essere donna: se una nave affonda hai diritto a una scialuppa e se ti rapiscono torni a casa tra i primi. Mi piacerebbe che questa persona provasse a immaginare cosa significhi essere una donna e attraversare un parcheggio deserto la sera, o venire ferita e sequestrata per mesi da un branco di uomini. Ecco, se non bastasse, dovrebbe poi immaginare come potrebbe sentirsi quella donna se fosse ebrea, costretta oggi a convivere con la paura concreta di poter essere rapita, violentata, accoltellata per l’unica colpa di appartenere al Popolo ebraico. Personalmente cedo volentieri il mio posto sulla scialuppa.
Mentre scrivo queste righe, a poche ore dal Giorno della Memoria funestato dalla paura di atti antisemiti, mi chiedo se tutto questo non rientri in un discorso molto più ampio. Anche questa Istituzione, in fondo, sembra essere diventata qualcosa che non riguarda più il nostro essere ebrei nel mondo contemporaneo. La memoria è fondamentale, ma mentre in Israele il giorno in cui si ricorda la Shoah è un giorno carico di un lutto intimo e personale, temo che in Europa questa commemorazione stia diventando un semplice rito, un dovere istituzionale svuotato di significato, in cui gli ebrei sembrano essere diventati solo uno dei tanti attori protagonisti. Ci si dimentica che l’unicità della Shoah è legata alla specificità della tragedia subita dal nostro popolo. Per noi “mai più” ha un significato diverso da quello di cui si appropriano la politica o il pacifismo. Il nostro “mai più” è un giuramento sulla nostra pelle, “mai più” significa che non siamo più disposti a subire quello che ci è stato fatto, perché già viviamo nel terrore che possa ripetersi. Invece sempre più persone che celebrano questa giornata sembrano dimenticarsi quanto la storia di Israele e la storia del mondo contemporaneo siano state costruite sulle vite di quei sei milioni di ebrei. È qualcosa di indiscutibile, di fronte alla quale dovremmo sentirci tutti profondamente colpiti e contriti. E invece, ogni anno, sembra che il distacco tra le cerimonie e i cuori aumenti e sentiamo sempre più voci che cominciano dire “certo, è stata una tragedia, ma…”. Seguono le immancabili frasi giustificatorie con cui si maschera l’antisemitismo. Alla fine non c’è troppa differenza tra loro e chi giudica la donna sul perché fosse lì a quell’ora e vestita in un certo modo… E insomma, da lì a dire che “ce la siamo cercata” è un attimo. Vale per la Shoah, così come vale per il 7 ottobre che si nutre dello stesso odio di voler eliminare un intero popolo dalla faccia della Terra.
E quindi? Ce ne facciamo una ragione e speriamo in tempi migliori? O continuiamo testardamente a remare controcorrente e a spiegare chi siamo e cosa vogliamo anche di fronte all’ennesimo ottuso e spesso voluto "fraintendimento"?
Noi siamo l’ADEI WIZO, sono sicura che saprete cosa scegliere.
Susanna Sciaky, Presidente Nazionale ADEI WIZO