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Voci da Israele

Usare la forza della verità per difendersi da chi diffonde l’odio è il proposito che ci ha spinto a creare per il mese di luglio questa rubrica nelle nostre news, nella quale alcuni amici dell’ADEI WIZO che vivono in Israele e stanno vivendo sulla propria pelle il dramma di un Paese costantemente sotto attacco, ci racconteranno la loro quotidianità. Voci e immagini che ci parlano di una vita difficile e costituiscono un’autorevole testimonianza di quando sia angosciante e doloroso, anche fisicamente, vivere sotto la minaccia di chi ha giurato di sterminare un intero popolo.



Avner Piero Calò ci scrive subito dopo l’ultimo Kippur, una data che lo riporta alla guerra del 1973, vissuta combattendo a 29 anni e salvandosi per miracolo. Ha avuto sei figli, uno caduto a 25 anni durante la seconda guerra del Libano un altro ferito in un attentato terroristico suicida. Eppure, nel corso della sua vita ha sempre cercato di sostenere la convivenza con il popolo palestinese. Del resto il Kibbutz dove vive, Ma'agan Michael, è tra i più grandi di Israele, tra Haifa e Tel Aviv e vicino a due villaggi arabi israeliani, da dove 300 persone arrivano ogni giorno per lavorare. Interpreta il sentimento degli Israeliani dividendoli in tre gruppi: chi conduce la sua vita in modo quasi normale, chi soffre per i parenti al fronte e i tanti profughi che hanno perso ricordi e affetti. “Io mi sento un po’ parte di tutti e tre” dichiara Avner, confessando anche la sua stanchezza nello sperare per la pace. Il nostro testimone ci rende partecipe anche di una iniziativa benefica: Avner è pittore, le sue opere sono esposte sul sito https://artcalo.com il ricavato andrà ad associazioni che lavorano a favore delle vittime della guerra.




Tamida Bruckmayer ha fatto l’Alya a 19 anni, dopo aver concluso di suoi studi alla Scuola Ebraica di Milano, realizzando così il suo sogno di vivere in Israele. Ha mandato il suo video il 7 ottobre 2024, ripercorrendo con la mente proprio quella stessa tragica giornata del 2023. All’epoca era incinta e si trovava nella sua casa di Ashkelon, “una città stupenda” sulla costa del Sud di Israele che è stata frequentemente bersaglio dei razzi dalla vicina Gaza.

Quella mattina Tamida dorme profondamente e viene svegliata dal marito. Non ha sentito la sirena, ma sa che, pur spettando un bambino, deve correre come può perché ha solo 15 secondi per arrivare dal terzo piano del suo condominio al rifugio nello scantinato. Non potrà mai dimenticare quelle sirene che hanno continuato a suonare per più di due ore e mezza e gli appelli della polizia a rimanere chiusi nei rifugi. Una vicina le mostra un video: si vede la città di Sderot poco distante, e terroristi che sparano per le strade. Da allora comincia la consapevolezza di vivere qualcosa che mai nessuno aveva sperimentato prima, un’angoscia che aumenta man mano che le notizie diventano più tragiche.   




Elios Eliahu Moschella non ha dubbi nel raccontarci i suoi sentimenti dopo il 7 ottobre: “Un misto di dolore e ira, molto spesso collegati tra di loro”.  Dolore pensando ai 101 rapiti ancora rinchiusi nei sotterranei dei terroristi. Ira per l’impotenza dimostrata da Israele nel momento dell’attacco. Una fiducia spezzata che si traduce oggi in “un danno psicologico immenso”.  Le cose poi vanno avanti, ognuno reagisce alla sofferenza come può, magari sorridendo se ci riesce, oppure con il silenzio, perché il dolore, nel ritornare con la propria mente a quei giorni, spesso annienta anche le parole.




L’aliyah di Sara Momigliano è recente, si è trasferita in Israele appena nell’agosto del 2023. Così le prime sirene d’allarme hanno colto lei e la sua famiglia impreparati: “Nessuno ci aveva spiegato cosa fare e dove andare – ricorda – siamo rimasti nel nostro appartamento”.  Sono stati i vicini ad andarli a cercare non vedendoli scendere al rifugio e da quell’episodio lei e suo marito, hanno capito che nessuno in Israele è davvero da solo, tutti quanti si preoccupavano per loro e per i loro figli. Sara ci regala anche un importante riflessione sulla gestione delle emozioni in questa crisi. È una maestra d’asilo e ha a che fare con bambini piccoli e genitori che spesso vengono richiamati nell’esercito. Montagne russe di sentimenti di cui bisogna tener conto rimanendo al contempo con i piedi per terra.




Nel 2011, all’età di 61 anni, Giacomo Zippel ha compiuto l’aliyah trasferendosi in Israele da Milano. Un’esperienza che gli permette di confrontare l’Intifada del 2014 con quello che è avvenuto nel 2023. Allora esisteva una paura dettata dall’incertezza e dal rischio degli attentati quotidiani, oggi sono paure diverse, legate alla sorte dei propri parenti al fronte o per quanto può capitare agli ostaggi.  




Marco Ottolenghi sceglie un approccio originale per raccontarci la vita in Israele dopo il 7 ottobre. Di professione oggi fa la guida turistica, ma dato che di turisti non se ne vedono più ha scelto di accompagnare reporter italiani nelle zone di loro interesse nel Paese. Per lui che ha partecipato alla prima Guerra del Libano del 1982, è un modo per impegnarsi in un’altra battaglia: quella della controinformazione delle accuse infamanti che la guerra mediatica scaglia contro Israele. Ed è appunto una serie di spezzoni di questi reportage che fanno da contrappunto alla sua testimonianza, come l’ospedale Ziv di Zfat diretto da un medico druso e con una portavoce musulmana, o il villaggio di Fassuta in Galilea, abitato da arabi e cristiani melchiti. Un modo per farsi un’idea precisa di una realtà multietnica e poco conosciuta di Israele.




Micol Picciotto vive da 15 anni nel centro di Israele, a Natanya, un luogo finora relativamente tranquillo dove crescere i suoi quattro figli. Ma il 7 ottobre è stato anche per loro una scossa elettrica e presto, alla paura e alle preoccupazioni, si sono aggiunte anche le difficoltà economiche perché l’asilo privato che Micol contribuisce a gestire ha dovuto chiudere temporaneamente. A superare i momenti più brutti ci ha pensato la solidarietà: “ci sentiamo tutti una grande famiglia” conferma Micol che, da madre, rievoca scene d’affetto e tenerezza che stanno caratterizzando la vita di Israele. Come l’abbraccio tra un padre, richiamato al servizio nell’IDF, e sua figlia.




Ester Picciotto ha fatto l’aliyah 12 anni fa per ricongiungersi alle figlie e ai nipoti. Come per tutti gli ebrei del mondo, il 7 ottobre del 2023 ha instillato in lei una dura consapevolezza: “Ero così ottimista che un certo tipo di antisemitismo fosse finito dopo la Seconda guerra mondiale… ho avuto un brusco risveglio. Certe cose mi hanno riportato ai racconti di famiglia su persone che erano state deportate. Qualcosa di inimmaginabile”. Una parte di questo dolore è stato comunque importante perché Ester, ora più che mai, continua a pensare che per lei non ci possa essere un altro posto dove vivere al di fuori da Israele: “Il sette ottobre ha dato a questa Nazione un’identità diversa e, a tutti i suoi abitanti, una forza insospettabile”.




Giulia Disegni ci fa sentire la sua voce da Carmiel nel Nord di Israele, una comunità dove hanno sempre convissuto in pace Ebrei, Cristiani, Arabi e Drusi. Una visione di convivenza che è stata messa a dura prova dopo il 7 ottobre. Da quel giorno si è insidiata la diffidenza e il sospetto: “Nella quotidianità si vive come meglio si può sotto i missili- racconta - è sempre stato così ed è una lezione che tutti dovrebbero imparare”, ma la strada per ritrovare la fiducia sembra molto, molto lunga.




Lia Bedarida è tante cose: una studentessa in medicina, una giovane madre, la moglie di un uomo che è stato richiamato nell’esercito, mentre lei partoriva la seconda figlia nel dicembre del 2023. Da 9 anni è anche una cittadina Israeliana. Eppure riesce a vedere l’aspetto positivo di una vita divenuta così complessa. “Siamo molto fortunati perché abbiamo un sistema di supporto molto grande: vicini, amici, parenti e tutta la società israeliana che si fa in quattro per noi. Non conosco un altro paese al mondo che abbia questa realtà… So di far parte di una società dove ciascuno si occupa dell’altro” .




Massimo Portaleone vive in Israele dal 1975, ma il suo racconto comincia con un ricordo che risale al 1983, quando era Tenente dei paracadutisti a Beirut. Lasciando il Libano con la sua brigata, era convinto che i suoi figli non avrebbero mai assistito alle scene di violenza di cui era stato testimone in quella guerra e che avrebbero vissuto in un mondo più sicuro anche di quello di cui gli avevano parlato i suoi genitori sopravvissuti alla Shoah. Invece la storia si ripete, anzi peggio: “Non è mai avvenuto un attacco a civili come quello del 7 ottobre” spiega e, parlando degli ostaggi nelle mani di Hamas, rivolge un pensiero ad uno in particolare, Alon Ohel di 22 anni, musicista e amico di suo figlio. Un clima di tristezza che solo l’attaccamento alla vita degli Israeliani riesce a superare. Eppure “mentre i nostri nemici inneggiano alla morte noi celebriamo la vita”.




Sergio Della Pergola, Professore Emerito alla Hebrew University di Gerusalemme, statistico e saggista di fama mondiale specializzato in demografia dell'ebraismo nel mondo ed in Israele, è particolarmente provato ed emozionato nel breve video che desidera condividere con la famiglia dell’ADEI WIZO “Cara Susanna, non era quello che speravo di mandarti per la rubrica Voci da Israele, ma credo che questo sia importante per la tua iniziativa. Un abbraccio”. Con grande affetto e coinvolgimento, anche per il lungo legame che ci lega alla famiglia Della Pergola, condividiamo quindi le sue parole pronunciate ieri, al funerale del Capitano Daniel Maimon Toaff al Cimitero Militare Nazionale, Monte Herzl, Gerusalemme.




Francesca Levi-Schaffer si ritiene fortunata perché non ha morti o rapiti tra i suoi famigliari e amici dopo i tragici fatti del 7 ottobre e vive in una relativa tranquillità a Gerusalemme. Ma quello che manca, a lei e a moltissimi suoi connazionali, è la sicurezza psicologica. Sente che ogni giorno potrebbe essere quello di un attacco di Hezbollah o dell’Iran. Eppure resiste, appronta la sua camera di sicurezza e si sente parte di un popolo forte che vuole vivere a testa alta, senza chiedere favori a nessuno. Il suo messaggio è la speranza di pace per un paese sempre sofferente. Di una cosa sola sembra rammaricarsi: la nuova ondata di antisemitismo che sente tangibile, persino in Cina dove è stata per lavoro.




La storia di Ariela Fajraizen è una di quelle che lascia il segno per gli interrogativi che ci pone sull’animo umano. Era il 1958 quando da Genova si è trasferita al Kibbutz Bar’am, ad appena 500 metri dalla frontiera con il Libano. Lei aveva appena 19 anni. A 5 chilometri da lì c’è il villaggio di Yaroum con cui il Kibbutz ha sempre intrattenuto ottimi rapporti. Forse anche per questo Ariela diventa promotrice della convivenza, si spende per il dialogo con arabi e palestinesi, si dedica con la sua comunità ad accogliere i profughi della guerra di Siria. Sa bene che questo tipo di impegno è nella storia di molti Kibbutzim, anche quelli del Sud che hanno sempre aperto le porte a chi veniva da Gaza. Il 7 ottobre per lei è quindi un colpo terribile anche per le sue convinzioni ideologiche. “Dovevo trovare la forza, alla mia età, di accettare realtà che non credevo possibili” confessa, velando per un attimo il suo bellissimo sorriso.  




Sono venuta in Israele nel 1996, un mese dopo la maturità. Era il mio sogno ed è ancora il mio sogno, non potrei vedere me stessa in nessun’altra parte del mondo”. Comincia così il racconto di Giordana Moscati che rivela come il 7 ottobre fosse in procinto di partire per una vacanza in Madagascar, una località scelta proprio per staccare qualche giorno da quella storia ebraica che spiega e racconta ogni giorno e che anche quando visita l’Europa non può non farla pensare alle persecuzioni del passato. “Ma a volte non si può sfuggire alla storia”. Quel giorno, nel momento in cui suo figlio l’avverte di avere due amici dispersi, Giordana si accorge che un la tragedia ha ancora una volta colpito il popolo ebraico.

(N.B. La testimonianza di Giordana Moscati, inviataci alcune settimane fa, menziona Hersh Goldberg z"l rapito dai terroristi il 7 ottobre. Purtroppo ora la sua sorte è nota: questo ragazzo di soli 23 anni è stato trucidato il 1 settembre per mano di Hamas).




Il 7 ottobre la vita di Hadassah Chen, Giornalista con una rubrica al Jerusalem Post e con un Real Talk per Arutz 7, è cambiata come quella di milioni di altre persone, ma forse in un modo che ha stupito anche lei stessa. L’attacco di Hamas avviene mentre lei era in vacanza a Forte dei Marmi, un luogo che ha sempre amato molto. Suo marito, con cui vive da più di vent’anni in Israele, viene richiamato nell’IDF, ma lei è bloccata in Italia. Di colpo quella terra che le è sempre stata di conforto per staccare dalla complessità di Israele diventa lontana dalla verità che sta vivendo. Per la prima volta lì si sente un’estranea: la serenità che continuano a vivere gli italiani che la circondano le sembra “impossibile” perché lei non può pensare ad altro che alla tragedia che ha travolto il suoi concittadini israeliani che stanno soffrendo terribilmente. Tornata a Gerusalemme capisce che per l’affetto che prova per quella che considera la sua casa deve diventare qualcosa di diverso: un impegno fiero e consapevole per il bene e la pace del suo paese.




Arik Bendaud è una figura molto nota nell’ambito della Comunità degli Italkim di Tel Aviv, dove vive da 16 anni e ha fondato il Tempio italiano, sviluppando attorno ad esso un’importante rete di volontariato. Il 7 ottobre, anche per lui e la sua famiglia con quattro bambini, è stato un giorno in cui si è creato un prima e un dopo, ma gran parte della sua testimonianza è un appello per chi vive fuori da Israele. “Alla fine, nonostante tutto, in Israele noi andremo avanti, ma quello che mi fa più paura in prospettiva è quanto sta succedendo all’estero, in Italia, e tutto l’odio che viene riversato contro gli ebrei”.  E invita a ad appoggiare Israele soprattutto visitandolo “Il sostegno che ci avete trasmesso appena scoppiata la guerra lo abbiamo sentito ed è stato fondamentale, ora abbiamo bisogno che ci facciate sentire la vostra presenza”.




Michael Sierra, israeliano e figlio di genitori Italiani ci invia il suo video nel triste giorno in cui sei ostaggi sono stati trovati barbaramente uccisi da Hamas, prima che fossero liberati dall’IDF. Ne nasce una riflessione tra le date a partire dal 7 ottobre che si ferma in particolare sul 18 novembre, uno shabbat, la data in cui gli viene annunciato che il fratello di sua moglie, Shachar, è caduto a Gaza. Oggi, purtroppo, ogni israeliano ha da ricordare qualcuno come Shachar, e Michael ci fa un bellissimo ritratto di questo ragazzo di 21 anni che aveva comprato un biglietto per le sue vacanze in Thailandia e invece a ottobre era partito per Gaza. Lo fa soprattutto attraverso le sue ultime parole inviate per lettera mentre stava arrivando al fronte: un inno alla vita che vale la pena di ascoltare.




Raphael Barki ci tiene a farci sapere, con nostro piacere, che abita a Tel Aviv a due passi dal quartier generale della WIZO. Ma al di là di questo, il suo intervento mette in luce la straordinaria mobilitazione da parte dei cittadini in questo anno così difficile per Israele. Ci racconta delle file di centinaia di metri di fronte agli ospedali per donare il sangue, dei gruppi auto-costituiti di volontari che danno una mano dove possono e magari, come Raphael stesso, si ritrovano ad accompagnare i ospiti di un centro geriatrico o di assistere gli sfollati del Nord. Conclude con le parole della Parasha di Reè, letta lo scorso Shabbat, spiegandoci che le parole della Torah ci suggeriscono la via da seguire anche in questo momento difficile: “Parla della strada della benedizione e della maledizione, noi vogliamo intraprendere la strada della benedizione per il mondo intero



Il messaggio di Dafne Guetta ci arriva in un momento davvero particolare: suo nipote Tom Reuveni ha appena vinto per Israele la medaglia d’oro alle Olimpiadi nel Windsurf.  Del resto, lui è il primo di una famiglia che è stata contagiata dalla passione per questo bellissimo sport. È uno squarcio di normalità e di orgoglio in mondo complesso, dove la Professoressa Guetta si è trovata anche di fronte a un boicottaggio dell’Università di Madrid per il solo fatto di lavorare per un ateneo Israeliano.




Sono ottimista: questo non è il conflitto tra Israele e i Paesi Arabi. È il conflitto fra un polo iraniano che ci vuole buttare in mare e un resto del mondo di cui fanno parte anche i paesi arabi moderati che vogliono costruire un futuro migliore con noi”. È un giudizio importante quello di Marina Foà in Israele da 48 anni e “fieramente sionista”, come si dichiara, “perché credo che sia il posto migliore PER un ebreo dove vivere”, ma anche convinta che un futuro migliore sia possibile persino dopo questa terribile prova.




Samuele Rocca è Docente di Storia di Architettura presso l’Ariel University e di Storia dell’arte presso la Neri Bloomfield Academy of Design and Education di Haifa. Il 7 ottobre si trova a Berlino: con la moglie, violinista, che a differenza di lui impiegherà più di un mese per rientrare in Israele. Nel frattempo, il figlio più grande è richiamato dall’IDF, il più giovane è in servizio nei paracadutisti e poi anche la figlia parte volontaria. In un anno, così difficile per la sua famiglia, Samuele riesce a pensare anche ai suoi studenti dell’Università a cui cerca di dare gli strumenti per continuare a frequentare. Una vocazione che rende ancora più assurdo il boicottaggio di cui è stato vittima da parte dell’Università di Pisa e che non fa onore al mondo della cultura di cui è portavoce.




Michael Sorani vive e lavora dal 2010 in Israele, a Ramat Gan vicino a Tel Aviv, sposato, tre figli piccoli, Ha scelto di parlarci con lucidità di come la percezione della realtà nella società israeliana si sia trasformata dal 7 ottobre. Dall’incredulità dei primi giorni, all’apprensione, a quel desiderio di tornare alla normalità interrotto continuamente dal succedersi degli eventi. “Si fa fatica a spiegare ai figli piccoli perché si debba andare nei rifugi” confessa. Ma si fa fatica anche a superare il rumore di fondo di apprensione e Le notizie quotidiane. E tuttavia bisogna continuare a lavorare come sempre, perché anche mandare avanti l’economia del paese è un modo per fare la propria parte.  




Alisa Campos è nata a Venezia e vive a Gerusalemme dal 1998. È assistente sociale in una ONG che lavora con bambini che crescono in famiglie disagiate ed ha lei stessa due bambine piccole a cui badare. Ci racconta come dal 7 ottobre la sua vita di svolga su due binari paralleli: in uno c’è la quotidianità in cui sono contenuti i bisogni delle sue figlie, nell’altra la paura per ciò che è successo e per ciò che potrebbe succedere. Ogni tanto i binari si sovrappongono, generando un’insopportabile dissonanza fatta di incubi e tristezza con cui è difficile convivere. 




Ci regala una poesia Ariel Viterbo: si intitola “Angoscia” ed è un titolo che riassume bene il senso di dolore di chi vede ogni elemento della propria vita completamente stravolto dalla violenza. Ariel vive in Israele dal 1985 nei pressi di Gerusalemme, due figlie sono Ufficiali dell’esercito e anche la terza è stata richiamata nell’IDF. “Per la prima volta abbiamo sentito che il futuro di Israele non è assicurato”, racconta prima di lasciarci ai suoi appassionati versi.




Alessandra Sabbadini, vive a Herzliya, una cittadina a nord di Tel Aviv che fino a oggi si è rivelata abbastanza tranquilla. La sua è una testimonianza del coinvolgimento della società civile che ci hanno raccontato anche le tante Voci da Israele già pubblicate in questa rubrica. Alessandra, si è mobilitata fin da subito nel centro WIZO di Herzliya: “Quello che mi ha dato la forza per andare avanti in quei giorni è stato il fatto che tutti quanti ci siamo dati da fare”, racconta.  Ci parla di una nazione traumatizzata: “Ma non esiste un’alternativa, questa è la nostra casa”.




“Ho sempre raccontato agli amici in Italia che vivere qui era un po’ come vivere sotto un vulcano che ogni tanto esplode e poi si calma”. Stavolta però l’eruzione è continua. Luisa Levi D’Ancona Modena, che da 20 anni vive a Gerusalemme, spiega così come si sente oggi. Ma come madre ha sulle spalle anche il peso di spiegare ai suoi figli il protrarsi di questo enorme stravolgimento. Un quadro oscuro, ma rischiarato dal coinvolgimento della società civile. Ogni cittadino dà il suo contributo nel portare conforto a chi sta peggio e una meravigliosa generazione di ragazzi sta crescendo, sentendosi già responsabile del proprio compito.




Roberto Della Rocca abita in Israele da ben 45 anni, più precisamente a Ramat Gan, nell’hinterland di Tel Aviv. Medico veterinario, esperto di sicurezza alimentare (ma anche attore), sposato con due figli, di cui una Tenente Colonnello riservista dell’aeronautica militare. Una vita che potrebbe essere tranquilla se non fosse che il 7 ottobre è ancora un trauma ben lungi dall’essere superato per chiunque viva in Israele. Si insegue la normalità, ma è impossibile da dimenticare il dramma degli ostaggi, l’apprensione per i soldati, la necessità di aiutare gli sfollati. E allora tutto diventa più complicato e affidato alla speranza che il Paese possa un giorno vivere in pace.




Dal ‘95 in Israele, Daniel Lanternari vive con la sua famiglia nel Kibbuz Nirim, ad appena 3 chilometri dal confine con la striscia di Gaza. Quella che ci racconta è una drammatica testimonianza in prima persona dell’attacco del 7 ottobre. È sopravvissuto agli spari dei terroristi che miravano a lui e a suo figlio, passando poi ore nella camera di sicurezza mentre i nemici provano ad entrare. Non tutti i suoi vicini di casa sono stati così fortunati: otto ragazzi del Kibbutz sono stati uccisi e altri membri della comunità sono stati rapiti. La vita per Daniel è continuata, ma in una dimensione precaria che ha diviso la sua famiglia in varie zone del Paese.




Da più di 30 anni Daniela Camerini Librus vive a Giv'atayim, un sobborgo di Tel Aviv, ha due figli e lavora in un’azienda importatrice in Israele del gruppo Stellantis. Suo marito ha vissuto la guerra del Kippur e anche lei, in 30 anni, ha vissuto l’esperienza di razzi, missili e attentati. Tutto questo aveva dato alla famiglia l’illusione che niente di così traumatico potesse ripetersi. Eppure, oggi Daniela sente di vivere più che mai sul filo del rasoio. Ci parla da un mondo in perenne ansia per gli ostaggi (il suo pensiero in particolare va al piccolo Kfir Bibas del Kibbutz Nir Oz, ancora oggi prigioniero a Gaza), per i militari, per i profughi, ma ci parla anche di una società forte e unita, sicura che Israele potrà ancora una volta vivere il suo futuro.




Claudia Sabbadini, Psicoterapeuta e responsabile anche del team paramedico nelle scuole presso il Ministero della Pubblica Istruzione d'Israele, è la persona più indicata per parlarci dei riflessi psicologici di ciò che stanno vivendo i cittadini di Israele. Dal 7 ottobre, tramite la sua associazione IMDR, ha fatto volontariato, offrendo gratuitamente sedute terapeutiche alle persone che hanno dovuto lasciare le loro case minacciate dai continui attacchi missilistici, ai sopravvissuti alla strage del festival Nova e, ultimamente, ai soldati impegnati al fronte di Gaza per recuperare le conseguenze dello stress post traumatico. Anche lei ha una figlia che fa il soldato e sa bene che il suo compito è trasmettere a tutti la forza necessaria per superare questi difficili momenti.




È visibilmente commossa Alice Silva, insegnante di italiano che da 11 anni abita a Gerusalemme con la sua famiglia. Lo è nel rievocare lo sbigottimento della mattina del 7 ottobre, che per lei è stato anche il giorno successivo al suo matrimonio, o nel ricostruire un piccolo lessico di parole in ebraico che hanno pervaso la loro vita da quel giorno e come “Hatufim”, rapiti, o “Mehablim”, terroristi.  Ma il suo intervento ci regala anche una frase che spiega perfettamente la sensazione che ciascuno dei cittadini di Israele prova nei confronti di chi è ancora nelle mani di Hamas: “Non ho mai provato così tanta malinconia per qualcuno che non conosco”.




Joe Shammah ha voluto mandarci da Tel Aviv un messaggio dal contenuto davvero significativo. Ha scelto di raccontarci con competenza e ricchezza di dettagli tecnici il “distretto industriale” del terrorismo creato da Hamas a Gaza. Ne emerge il quadro di una città e di una popolazione trasformata dai terroristi in una macchina da guerra dove attirare il nemico. “Gaza è governata dai tunnel -spiega Shammah - un’opera ciclopica pari alle piramidi egizie”. Scavarli è stato parte dell’economia di un datore di lavoro unico che ha dirottato i fondi dell’Onu per creare ricchezza e protezione per i suoi leader. Un sistema di potere in cui compiere atti di terrorismo dà accesso alla casta privilegiata che è al comando. Una descrizione che non troverete sui media europei e anche per questo è un testo da diffondere, parola per parola, compreso il commovente appello con cui chiude il suo intervento. 




Herzliya il sobborgo di Tel Aviv da dove ci parla l’imprenditore Alberto Corcos, sembra un luogo idilliaco dove si trovano teatri, country club con piscina e… un poligono di tiro.  Un simbolo di quello che vive oggi Israele: da un lato una vita pressoché normale, dall’altro chi si allena per difendersi. Parte da qui un’analisi che indaga altri aspetti apparentemente duplici di un Paese in cui il 7 ottobre ha innescato un rinnovamento delle strutture, mentre ciò che rimane fisso nei cittadini è l’esigenza di un Israele stabile e pluralista come è stato dalla sua fondazione. L’altra parte della testimonianza di Corcos riguarda invece la vita quotidiana, il dolore per i caduti, l’aumento del costo della vita, i profughi dal Sud e Nord… ma è proprio tutto questo ci mostra anche la coesione di un Paese unito dalla terribile prova che sta attraversando.




Davide Nizza si qualifica come guida turistica, ma chi lo conosce sa che è un eccesso di modestia. E’ stato insegnante, Preside ed è un uomo di straordinaria cultura. Ha scelto di parlarci del quotidiano, spiegandoci in che modo il 7 ottobre abbia impattato sulle piccole e grandi cose. Di come alcuni lavori vadano a rilento perché le persone sono state richiamate nell’IDF (come suo figlio di 37 anni), o sia difficile trovare certi prodotti nei supermercati. Ma ci racconta anche di una vita che continua nonostante tutto, come nel traffico di Gerusalemme, dove vive, nei treni in orario o nei cantieri per la metropolitana di Tel Aviv. E persino di come ci si possa svegliare dopo notti angosciate stupendosi che gli uccelli cantino ancora sui rami.




Le parole che Lia Rabello ci invia da Kfar Saba sono una dichiarazione d’amore per una terra in cui vive da più di 50 anni e che oggi vede minacciata come non mai.  “Sono venuta in Israele dopo aver sentito la storia della Shoah dai miei genitori ed ero più che sicura che sarebbe stato il posto migliore dove crescere i miei figli... Ho visto guerre, ho vissuto attentati, ma una cosa del genere era imprevedibile, terribile… molto peggio di un pogrom, perché sono entrati dentro le nostre case, nessuno avrebbe potuto pensare a una cosa del genere”. È una testimonianza che ci ricorda anche l’angoscia di un paese piccolo, dove ogni vittima di questa guerra è sempre parente o amico di qualcuno. Infine ci porta nella realtà di un centro per invalidi di guerra che quest’anno ha dovuto aprire due nuovi padiglioni per assistere i ragazzi feriti nei combattimenti.




Marina Finzi Norsi è un nome ben conosciuto sia in Italia sia in Israele, dove vive dal 1968. Stimata Pediatra, oggi abita a Gerusalemme e ci tiene a ricordarci di essere nonna di 8 nipoti, quattro dei quali richiamati nell’IDF. Con noi condivide l’emozione di aver assistito alla prima pietra per la ricostruzione di un nuovo quartiere del Kibbutz di Be’eri. Un messaggio significativo per dire che dopo il 7 ottobre la vita avrà il sopravvento sulla morte, come insegna da millenni la storia del popolo ebraico.




Sissi Pagani ama Israele: si è trasferita a Tel Aviv nel 2015 con il suo compagno Marco e ha aperto una gelateria. Ma in questi nove anni non ricorda di aver mai vissuto una situazione così allarmante, vive con preoccupazione le notizie che arrivano del Nord del Paese, vede gli sfollati arrivare in città, sente l’elenco dei caduti: “È come avere un sasso nello stomaco” dice. Ma percepisce anche altro: la solidarietà della gente e la necessità di cercare di fare ognuno qualcosa per aiutare il proprio Paese con la certezza che Israele non scomparirà. Ecco, ora sapete dove mangiare il gelato a Tel Aviv… e per tutti i soldati dell’IDF in servizio, offrono loro.

(N.B. il video di Sissi Pagani è stato registrato prima dell'attacco a Tel Aviv del 19 luglio.)




Il paesaggio pastorale alle spalle di Luciano Assin sembra un giardino dell’Eden. È il Kibbutz Sasa al confine con il Libano, in cui abita da più di 40 anni. Ma l’Eden ha un serpente pericoloso: i frequenti attacchi con razzi e droni di Hezbollah che devastano le colture e mettono in ginocchio le persone e l’economia di una zona basata sull’agricoltura, aumentando la paura costante degli abitanti. Di fatto oggi Luciano, come tutta la sua comunità, è uno sfollato, potendo recarsi a Sasa solo il tempo necessario per il lavoro e per controllare se la sua casa è ancora in piedi.




Comincia con una lista di nomi la testimonianza di Mara Vigevani: sono quelli delle vittime dell’attacco del 7 ottobre al Nova Festival, dei rapiti dai terroristi di Hamas, dei soldati caduti che abitavano nel quartiere di Arnona a Gerusalemme. Erano suo i vicini di casa, persone reali che conoscevano tutti. “Il 7 ottobre ha insegnato a tutti che la storia di Israele è breve e che 76 anni possono essere cancellati in pochi minuti” continua Mara, mentre la sua testimonianza diventa una riflessione su come difendere questo fragile futuro.

(N.B. La testimonianza di Mara Vigevani, inviataci alcune settimane fa, menziona Hersh Goldberg z"l rapito dai terroristi il 7 ottobre. Purtroppo ora la sua sorte è nota: questo ragazzo di soli 23 anni è stato trucidato il 1 settembre per mano di Hamas).




Siamo particolarmente grati a David Zebuloni, giornalista di Libero Quotidiano, per il suo contributo alla nostra Rubrica “Voci da Israele”. La sua è un’analisi lucida di come è cambiata la vita di tutti gli Ital-Israeliani in un Paese così bello che sta vivendo un’ora così buia. C’è una frase che colpisce particolarmente: “Raccontare Israele in questo periodo significa anche non essere capiti, c’è un non-impegno nel cercare di immedesimarsi in una realtà che invece è molto più vicina all’Italia di quanto non si creda”. Per Zebuloni diventa così una missione usare le parole per portarci nel Kibbutz Be’eri letteralmente carbonizzato dall’attacco di Hamas, farci conoscere la forza dei sopravvissuti del Nova Festival, o dei parenti delle persone sequestrate dei terroristi in quella che è ormai nota come piazza degli ostaggi. Persone che hanno trasformato il loro dolore in un messaggio che è per tutti noi.




Ghila Piattelli, romana di nascita, vive in Israele dal 1992 ed è una scrittrice ben conosciuta anche in Italia: il suo romanzo “Resta ancora un po’” è stato finalista del Premio Letterario ADEI WIZO Adelina Della Pergola nel 2021.

E’ lei la protagonista del quarto appuntamento di “Voci da Israele”, attraverso una dettagliata video testimonianza da Ra'anana, una città che lei definisce “geograficamente privilegiata” per aver scampato gli attacchi missilistici, dove però si vive in altri modi la realtà di un paese in guerra: dall’ospitalità  agli sfollati, alla riabilitazione dei soldati feriti, al timore per i tanti concittadini al fronte e per Naama Levy, la ventenne rapita e tenuta prigioniera da Hamas da 9 mesi. Ma Ghila, con la sua sensibilità, è capace anche di vedere le piccole cose positive di questi difficili momenti: ci parla dei miracoli di Israele, dell’impegno delle giovani generazione e di quanto un abbraccio possa contribuire a fare rinascere la speranza.  




Il terzo contributo per Voci da Israele ci arriva da Daniela Fubini, giornalista ed esperta di marketing, nata a Torino, ma israeliana di adozione. Le immagini dal moshav di Kokhav Michael dove vive, ci mostrano un bellissimo giardino, ma se la natura riprende a fare frutti, per gli esseri umani è molto più difficile ricominciare il corso della propria vita. Daniela Fubini ci parla dell’angoscia per le persone care impegnate nei combattimenti a Gaza, appena 12 chilometri da lì e di una guerra che si fa sempre più difficile per i civili al nord. Emerge dalle sue parole anche un accorato desiderio che il mondo conosca la loro realtà, così intrisa di precarietà di fronte ad una violenza capace di manifestarsi in ogni momento. Esattamente il messaggio che l’ADEI WIZO vuole contribuire a diffondere attraverso questa rubrica.




La seconda delle nostre “Voci da Israele” è Shany Piattelli. 22 anni, una vita interrotta il 7 ottobre 2023, quando ha dovuto lasciare gli studi, gli amici e la normale vita di una ragazza come tante, perché richiamata dall’IDF per ben due volte negli ultimi mesi. Shany non è Wonder Woman. Fa la sua parte, ma oltre ai nemici deve combattere la paura, specialmente quella di una giovane donna che ha ancora negli occhi i filmati delle ragazze rapite e stuprate dai terroristi di Hamas e sa che, se catturata, potrebbe fare la stessa fine. Un timore che emerge dalla spontaneità del suo racconto e che ci ricorda quanto gli eroi non sono mai quelli che non conoscono la paura, ma le persone che si sforzano ogni giorno di conviverci.

Oggi che nuvole della guerra sembrano addensarsi ancora di più, Shany sta per essere richiamata nell’esercito una terza volta. Non si augura di uccidere nessuno: vuole solo difendere il suo diritto a vivere tranquilla in una terra in pace.




Il primo contributo di Voci da Israele viene da Angelica Calo Livne, insegnante, educatrice, formatrice, regista, scrittrice, fondatrice e direttrice artistica della Fondazione Beresheet LaShalom – Un inizio per la pace – con sede in Alta Galilea in Israele. La sua testimonianza ci fa percepire tutta la precarietà di chi vive e lavora nel Nord di Israele, anche perché proprio mentre parla risuonano le esplosioni degli ordigni lanciati da Hezbollah, che la costringono, come ogni giorno, a correre nei rifugi. La mente può anche sopportarlo, ma il corpo no.







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